di Luca Baroncini (pubblicato in data )
Christopher Nolan si cimenta per la prima volta con una biografia e la approccia con fedeltà al suo stile improntato a solennità, andamento circolare e incastri temporali. Il risultato è più affascinante che riuscito, più stordente che davvero comunicativo. Nell’affrontare la figura controversa dello scienziato Robert Oppenheimer, basandosi sul libro di Kai Bird e Martin J. Sherwin “Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato”, corre avanti e indietro nel tempo mescolando a più livelli presente e passato, gioca con i cromatismi e racconta a modo suo la genesi del progetto Manhattan che portò alla realizzazione delle prime bombe atomiche durante la seconda guerra mondiale. La frammentazione, però, non giova alla comprensione, la complessità più che essere sviscerata viene riverberata. Per la prima ora e mezza sembra più di assistere a un lunghissimo trailer che al film vero e proprio, in costante fuga dal proprio centro. I personaggi ne sanno sempre di più dello spettatore che non ha modo di collocare le tante informazioni, i riferimenti, i nomi, i fatti storici, al posto giusto. Si dirà che l’importante è l’affresco, il quadro d’insieme, e l’incedere è incalzante, ti cattura, prendendoti in ostaggio con il montaggio serrato, i dialoghi ad effetto e la onnipresente colonna sonora. Può essere, ma come premessa resta comunque lunga e dispersiva, viene più da domandarsi dove si sia visto quell’attore che compare all’improvviso che a che punto sia la preparazione dell’ordigno nucleare o cosa provino davvero i personaggi. Poi arriva il momento della deflagrazione e finalmente il film si scioglie un poco dal suo gelo, con le prime reazioni di Oppenheimer affrontate con visionarietà combinando senza troppi fronzoli l’intimo e il collettivo. Anche i successivi sganci della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, lasciati fuori campo, acquistano intensità proprio in conseguenza della loro assenza e danno un senso al gesso sulla lavagna della colonna sonora, contraltare di una gioia della scienza incurante del dolore e della morte di decine di migliaia di persone, quasi danni collaterali di un progresso scientifico senza precedenti.



Ma sono pochi sprazzi di grande cinema perché poi la (lunga) parte finale intraprende la strada del cinema processuale in cui acquista centralità la figura dell’ambiguo Lewis Strauss, presidente della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti, e il film continua a sembrare una sorta di JFK di Oliver Stone, ma con meno smalto e un’indagine mai davvero avvincente. Tanto che c’è bisogno di un costante surplus di colonna sonora per dare tono alla successione degli eventi. Anche la trovata di sceneggiatura di non rendere udibile il dialogo tra Oppenheimer ed Einstein non conserva il suo mistero che viene disvelato nel finale, perdendo gran parte della sua efficacia (se sapessimo cosa ha sussurrato Bill Murray a Scarlett Johansson, ci ricorderemmo ancora di Lost in Translation?). Dopo tre ore di visione resta anche tutto sommato poco sviscerata la figura del protagonista. Quella mela avvelenata a inizio film aveva illuso su un’indagine nelle zone d’ombra, nel buio di un’anima divisa in due, invece qui è molto sulle spalle del bravo, scarnificato e attonito Cillian Murphy, ma è tutto esplicitato, filtrato da una razionalità che lascia poco margine a un senso di colpa che non sia una banale conseguenza degli eventi, di superficie. Come lo è anche il rapporto con le poche figure femminili, in cui invece potrebbero celarsi più spiragli di comprensione del personaggio di quelli che il film decide di trattare. Resta un’opera dal forte impatto, del resto montaggio e colonna sonora ti aggrediscono dall’inizio alla fine, tecnicamente ineccepibile, ma anche prolisso, semplicistico e non così coinvolgente.


